I filosofi greci particolarmente la Politica di Aristotele (in VIII libri) sottolineano come l’uomo sia “per natura un animale politico” e come tramite la città (la polis greca, che si può considerare come un micro Stato) abbia come scopo il raggiungimento dell’autosufficienza, del benessere, dell’armonia e della perfezione. Caratteri questi che non devono essere letti in chiave individualistica, ma come strumenti per la crescita spirituale dell’uomo e dell’intera collettività. La città (la polis), dal canto suo, non è né una realtà al di sopra dell’uomo né, tanto meno, una comunità rigida e militaresca come era Sparta. Rappresentava, piuttosto, l’ambito naturale in cui l’uomo poteva educare se stesso e gli altri, diventando un cittadino rispettoso delle leggi, onesto e virtuoso.
In questa figura si incarnava, per Aristotele, l’ideale greco della bellezza che non poteva essere disgiunto dall’eticità e dalla giustizia.
L’uomo è un animale politico
Questo, secondo Aristotele, fa della politica – il sapere del “buon governo” – la scienza più alta dell’uomo. In essa, infatti, si riassumono – e trovano attuazione – tutte quelle caratteristiche sviluppate dai vari aspetti della filosofia e che solo tramite la politica si possono amalgamare: in nome del benessere individuale e del bene comune. Di conseguenza, il potere politico – per Aristotele – non discende dalla saggezza del governante (il filosofo-re di Platone), ma dalla legge: oggi diremmo da una costituzione.
Come segnala il primo dei due termini, «animale», l’ambiente di riferimento della definizione non è infatti antropologico bensì zoologico. Nel suo trattato Historia animalium (Ricerche sugli animali), Aristotele aveva infatti diviso gli animali in «sociali», che vivono in gregge (agelaia), «solitari» (monadika) e appunto «politici»
Le costituzioni Migliori secondo Aristotele

La costituzione ateniese
Prosegue l’indagine sulle costituzioni, distinguendo tra la migliore in assoluto, la migliore a seconda delle situazioni e quella più comune nelle città. La prima potrebbe essere identificata con il regno, che però è pressoché irrealizzabile nella sua forma perfetta; mentre la seconda sarà oggetto di studio negli ultimi due libri. Aristotele si sofferma quindi sul terzo tipo, quelle più facili da realizzare in situazioni comuni, cioè oligarchia e democrazia. Queste due si differenziano perché nella prima comandano i più ricchi, nella seconda gli uomini liberi. Vengono poi distinti cinque tipi di democrazia e quattro tipi di oligarchia. Dopodiché si passa alle forme rette, cioè aristocrazia e politeia. Per Aristotele quindi, la forma migliore di Stato possibile concretamente – e non idealmente – è sicuramente quella che chiama in greco “politeia” e che si potrebbe tradurre come “costituzionale”
Chi è incapace di vivere in società, o non ne ha bisogno perché è sufficiente a se stesso, deve essere o una bestia o un dio.
Politica – Aristotele
La specificità umana consiste dunque nell’interazione comunicativa che ha luogo all’interno della polis, ambiente e condizione della politicità naturale dell’uomo. Ma anche la città esiste «per natura», come Aristotele non si stanca di ripetere; è vero che essa si costituisce al termine di un processo di aggregazione sociale che va dalla coppia riproduttiva alla famiglia al villaggio fino appunto alla polis, ma la sua formazione non appartiene alla contingenza della
storia bensì all’ordine degli eventi naturali. La polis è quella «forma perfetta di comunità» che «esiste per natura» rappresentando il telos che orienta il processo di formazione e gli preesiste in potenza (1252b30-34). Ed è «per natura» che la specie umana è dotata di un impulso (horme) verso la costituzione di questa comunità (1253a29-30), in cui la sua essenza risulta compiuta e dispiegata. È il caso di riflettere sullo spostamento epistemologico che la naturalizzazione della politicità umana e della polis come suo ambiente costitutivo fa subire al discorso antropologico di Aristotele.
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Repubblica di Platone
Platone nel testo Repubblica introduce il tema della giustizia, della sua natura e della sua definizione sul piano psicologico del comportamento individuale, con un’andatura e uno stile che ricordano abbastanza esplicitamente le indagine socratiche condotte nei cosiddetti “dialoghi giovanili”, con la consueta contrapposizione, a tratti assai violenta, alle posizioni ascrivibili alla sofistica, a partire dal libro II, il problema della giustizia viene esteso, per analogia, all’ambito politico della costituzione e della struttura della città, forse meglio identificabile per il suo carattere concreto e storicamente determinato (368b-369b), con il tentativo, condotto ancora nel libro III, di
effettuare una ricognizione completa della struttura socio-istituzionale della città, con l’individuazione delle classi che la compongono e con la rigorosa ripartizione dei compiti e delle funzioni che a ciascun cittadino sono assegnati. Ma è il libro IV che produce una svolta nell’analisi, perché, riproponendo l’analogia fra l’indagine sulla giustizia a livello psicologico individuale e a livello politico della città, giunge a stabilire la sua definizione universale come consistente nell’esercizio, per ogni individuo (e per ogni componente psico-fisica di ogni individuo) o per ogni agente istituzionale (cittadino, classe sociale, città), della sua funzione propria: la giustizia è, di conseguenza, ta heautou prattein (433a), che rappresenta un filo conduttore narrativo e a un tempo un nucleo teorico situato, implicitamente ed esplicitamente, al cuore della Repubblica, secondo cui l’esercizio, da parte di ogni elemento particolare di un insieme, della propria funzione naturale garantisce l’equilibrio armonico dell’insieme, dunque, in tal senso, il suo ordine, che coincide di fatto con la “giustizia” della sua disposizione strutturale e funzionale.
A partire dal libro V, la sfida rivolta a Socrate dai suoi interlocutori consiste nel precisare le condizioni di possibilità di una simile struttura istituzionale, di cui vengono fissate dapprima le “scandalose” tappe sociopolitiche, con le celebri “ondate” relative alla necessità della comunanza
pianificata della proprietà, della produzione dei beni e della procreazione, fino alla più ardua esigenza del governo dei filosofi.
Quest’ultimo assunto richiede, dall’ultima parte del libro V e fino al VII, una rigorosa giustificazione, che si articola attraverso un’assai complessa dimostrazione che sancisce la differenza fra il sapere dei filosofi e le opinioni degli uomini comuni, premessa indispensabile per spiegare e
difendere il ruolo dominante dei filosofi nella città, e di seguito stabilisce l’opportuno curriculum formativo dei futuri filosofi-governanti. Il libro VIII esamina poi, con il rigore diagnostico di una vera e propria analisi sociologica della natura e delle degenerazioni del potere politico nella dialettica del suo esercizio istituzionale e sociale, le diverse forme di governo storicamente corrispondenti alle forme assunte come canoniche nel pensiero politico greco e, del resto, di fatto coincidenti con i principali generi di regime concretamente prodottisi nel mondo greco (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide), cui segue, nel libro IX, una ripresa del tema originale della giustizia, al fine di dimostrare, tornando nuovamente sul piano psicologico individuale, la superiorità e la felicità del giusto rispetto all’ingiusto, in virtù del parallelismo stabilito, sul piano della forma di governo, con la relazione fra il sistema istituzionale più giusto rispetto all’ingiusto. Il dialogo, che potrebbe a questo punto dirsi compiuto, prosegue invece nel libro X, nel quale si torna, pur se con accenti diversi, sulla giustificazione della superiorità del sapere dei filosofi, che va assunto come paradigma pedagogico e gestionale della condotta individuale e collettiva, rispetto al sapere comune rappresentato dalle forme abituali della cultura tradizionale, per esempio dell’arte imitativa e della poesia, epica o tragica. Un lungo e complesso monologo mitologico, dedicato all’esposizione del destino dell’anima individuale nel corso della sua vicenda immortale, conclude la Repubblica, trasponendo di fatto l’affermazione della superiorità e della desiderabilità della giustizia rispetto all’ingiustizia, dall’ambito psico-fisiologico e socio-politico all’ambito propriamente metafisico ed escatologico.